L’antipasto era una insalata mechiouia, seguita da un gustoso e abbondante cuscus all’agnello, con patatine fritte, una bottiglia grande di acqua minerale e un thè ai pinoli. Il tutto per 12 dinari, poco più di sei euro. A Tunisi, in una piccola traversa della centralissima Avenue Bourghiba, proprio di fronte all’Hotel Africa, c’è questa deliziosa bettola a conduzione familiare – vedi foto – che porta il nome del suo vecchio proprietario, Mohammed Habid. E’ specializzata in cucina “sfaxiana”, perciò speziata, e regala a prezzi pressocchè imbattibili i veri sapori della cucina maghrebina. Ovviamente, non c’è da fare gli schizzinosi: chi ha troppe pretese sugli arredi, sul servizio e un po’ anche sull’igiene è meglio che stia alla larga e si accontenti dell’anonima cucina internazionale che infesta i grandi alberghi o i club vacanze. Lì sarà al sicuro, mangerà come a casa e non avrà l’ossessione dell’amuchina.
Andare a caccia di bettole è una passione che mi porto dietro da quando, giovane e un po’ fricchettone, andavo in giro per il mondo facendo l’autostop. All’inizio era soprattutto una questione di soldi. Con gli anni ho invece raffinato il mio gusto, imparando ad apprezzare le atmosfere che spesso le animano e ne fanno, proprio per questo, uno spaccato straordinario di vita locale. Basta non fermarsi alla prima impressione, alzare lo sguardo attorno a sé e lasciarsi andare, per ritrovarsi di colpo in una pagina di Mafhuz o (ancor meglio) di Albert Cossery. Il cibo, poi, è sempre quello giusto. Non ho mai mangiato uova più buone di quelle servono alla stazione delle corriere di Segou, in Mali, cucinate in padelle nere come la pece e servite su tavoloni all’aperto, nel piazzale polveroso. E il pane afghano più buono, il naan, l’ho mangiato al lume di candela in una locanda per viaggiatori del Panshir dove, assieme a Ettore Mo e Luigi Baldelli, siamo stati molto probabilmente gli unici clienti di razza europea.
Per questo mi ostino a frequentare le bettole. Sempre e ovunque vada. Perchè così imparo a conoscere la gente. E intanto mi lecco le dita.