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La guerra che verrà

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Non c’è bisogno di scomodare Rainer Maria Rilke - “Il futuro entra in noi molto prima che accada” – per rendersi conto che la prossima guerra la si sta già combattendo, nel Sahara, in quell’enorme lago di sabbia che ha al suo centro il Mali e comprende Mauritania, Niger Algeria, con l’inclusione anche del nord della Nigeria. E’ una guerra a cui i mass media hanno applicato finora il silenziatore – perchè le notizie arrivano centellinate – ma che preoccupa non poco le cancellerie occidentali, le quali rischiano di ritrovarsi con un’area di grande instabilità alle porte di casa. E l’unico a rallegrarsene sarebbe il fantasma di Muammar Gheddafi, che in fondo quell’area l’aveva  pacificata, sia pure a suon di petroldollari e  trasformandola in una dependence libica.

La guerra, comunque, la si combatte da mesi. All’inizio, in marzo, era solo una crisi politica interna al Mali, con un putch militare da operetta, troppo blandamente sconfessato dalla comunità internazionale . Poi la ribellione dei tuareg rientrati dalla Libia carichi di armi l’ha trasformata in una guerra civile, che ha “liberato” l’Azawad, vale a dire il nord del Paese, trasformandolo però, di fatto, in un santuario per i fondamentalisti islamici di Aqmi, Mujao, Ansar Dine e Boko Haram, il cui contributo militare alla vittoria dei tuareg è stato determinante e che hanno subito provato ad imporre la sharia nelle città di Gao, Kidal e Timbuctu.                                                                          

Da mesi fra la componente “laica” del movimento tuareg – storicamente preponderante - e l’opaca galassia di questi gruppi fondamentalisti è in corso un braccio di ferro estenuante. Lo dimostra il corteo di donne che ha sfilato per le strade di Kidal il 6 giugno e che i miliziani di Aqmi e Ansar Dine hanno disperso con brutalità.  A Timbuctu, invece, il 20 giugno, i miliziani dell’Aqmi lhanno inflitto 100 frustate ad una coppia accusata di rapporti extra-matrimoniali, lasciando che le telecamere di France 2 riprendessero la scena. Un morto e diversi feriti ci sono stati infine oggi, a Gao, durante una manifestazione di protesta contro lo strapotere e i metodi brutali utilizzati da questi gruppi. Lo stessa Amnesty International, in maggio, aveva denunciato la situazione, catalogandola come la “peggiore crisi umanitaria vissuta dal Mali negli ultimi 50 anni”.  A complicare il quadro ci sono poi le manovre dei diversi attori  regionali – in primo luogo i servizi segreti algerini – che non vedono di buon occhio la secessione del nord del Mali, per timore di un effetto domino, e che con i gruppi fondamentalisti hanno da sempre rapporti ambigui, anche (ma non solo) in funzione anti-occidentale.

Il risultato è che l’intera regione versa oggi nel caos totale.  Dagli stati limtrofi (e dalla Francia) ci sono pressioni sempre più aperte per un intervento militare che ripristini l’unità territoriale del Mali, mentre gli Stati Uniti giocano da soli, lanciando i propri droni all’attacco dei miliziani filo Al Qaeda. In attesa che il Consiglio di sicurezza dell’ONU si esprima sulla vicenda, a farne le spese – come sempre – è la popolazione civile  a farne le spese: a parte i morti e i feriti - nell’ordine delle centinaia –  sono 300mila gli sfollati, di cui 170mila nei Paesi confinanti.

PS. Leggo oggi, 1° luglio, che la CEDEAO e l’Unione Africana stanno varando un intervento militare in Mali, con l’appoggio di Stati Uniti e Francia. Dubito che possa essere una buona mossa, anche perchè finora gli interventi inter-africani – come in Liberia, Sierra Leone e Somalia – sono serviti solo a congelare più che a risolvere i conflitti in atto.

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